Incastonata nella Valle del Bagnoro, la Chiesa di Monastero è uno dei gioielli più preziosi e al tempo stesso trascurati dell’intero territorio comunale aretino.
Per raggiungerla bisogna percorrere la strada che collega Bagnoro a Santa Firmina. Circa a metà percorso si svolta a sinistra per salire fino al gruppo di case che forma la frazione di Monastero. La chiesa, seminascosta, si trova proprio al centro dell’abitato.
Gli studiosi locali fanno risalire l’edificio all’Alto Medioevo. Al IX secolo è infatti ascrivibile il piccolo altare provvisto di pozzetto per le reliquie, ancora visibile sulla sinistra appena entrati. Al suo interno, nel 1750, fu ritrovata una pergamena che ricordava la risistemazione del luogo di culto nel 1214 e la sua consacrazione a San Biagio, San Donato e alla Natività della Vergine. Di quella fase rimangono due bassorilievi zoomorfi e fitomorfi incastonati sulla parete sinistra.
Tra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento la chiesa di Monastero fu affrescata da artisti locali. Parte di quei cicli è ancora visibile, sebbene molte pitture versino in condizioni fatiscenti o, in alcuni casi, siano state pesantemente ridipinte.
Tra queste opere si segnalano, sulla parete destra, un San Donato del 1526 e una Maddalena del 1523. Lo Sposalizio mistico di Santa Caterina e il Sant’Antonio Abate sono invece di qualche decennio precedente.
Sul lato sinistro si ammirano tre piccole cappelle con due Madonne con il Bambino e un affresco del 1495 con la Madonna con il Bambino tra Sant’Antonio Abate e San Michele. Da evidenziare anche altre figure eseguite singolarmente come San Rocco e Sant’Antonio Abate, quest’ultimo più volte replicato, a testimonianza del culto per il protettore degli animali che si era radicato nella zona tra XV e XVI secolo e che dura ancora oggi. Basti pensare alla nota benedizione degli animali che si svolge ogni anno, a gennaio, nella vicina Pieve di Sant’Eugenia al Bagnoro.
All’interno la fatiscenza è disarmante, con i cicli di affreschi attanagliati da polvere e umidità, ma anche all’esterno la chiesa non se la passa meglio. L’esempio più lampante è il piccolo sagrato, ormai da anni quasi completamente oscurato da una selva intricata di erbacce e arbusti invasivi.
Monastero è un luogo che dovrebbe essere una tappa obbligata per chi vuole approfondire lo sviluppo dell’arte locale post-pierfrancescana tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del secolo successivo, ma di essa i turisti e la stragrande maggioranza degli aretini ignorano persino l’esistenza.
Dopo aver perso la sua funzione religiosa, l’edificio poteva essere destinato a una infinità di iniziative e usi culturali e sociali e invece si sceglie di lasciarla morire, in attesa delle irrinunciabili lacrime di coccodrillo quando la situazione sarà compromessa definitivamente – vedi la non lontana chiesa di Sant’Agata a Saccione.
Chi scrive, quattro anni fa si era già occupato con un articolo per il Settimanale di Arezzo della questione. Il pezzo chiudeva con quelle parole: «La situazione economica del Paese è difficile, non lo mettiamo in dubbio, e sappiamo che lo stanziamento di fondi per la cultura, l’arte e la salvaguardia del patrimonio sono oggi l’ultimo dei pensieri delle istituzioni laiche e religiose in Italia. Tuttavia, se non ripartiamo dal recupero e dalla valorizzazione dell’unica cosa che il mondo intero ci invidia – il nostro patrimonio artistico – uscire da questo cronico cul-de-sac sarà sempre più complicato».
Parole, purtroppo, ancora tristemente attuali.
Marco Botti